In cammino con alcuni nostri amici
In questo tempo misterioso, carico di fatica e dolore, eppure così ricco di scoperte e attese, abbiamo rivolto alcune domande a degli amici per farci raccontare le loro giornate, la loro esperienza nel lavoro e nella vita quotidiana, il loro 'bisogno di impossibile' sfidato dalle circostanze del coronavirus.
Iniziamo con Alessandra, giovane medico di 26 anni di Macerata, da qualche mese al lavoro, come medico in formazione, presso l’Ospedale Sacco di Milano.
Papa Francesco il 27 marzo ci diceva: "...ci siamo resi conto di trovarci nella stessa barca, tutti fragili e disorientati… la tempesta smaschera la nostra vulnerabilità”. E' così anche per te? Se sì dove lo stai sperimentando? Cosa ti aiuta a stare di fronte al disorientamento e alla paura senza esserne sopraffatta? Cosa ti sostiene nella fatica quotidiana?
Con l’emergenza sanitaria il reparto di medicina, a cui sono assegnata per questo anno, è stato trasformato in una struttura semi intensiva per accogliere i pazienti Cov-19 positivi. Fin dai primi turni è iniziata una lotta contro la mia umanità, ero scandalizzata della fatica che facevo… onestamente pensavo che me la sarei cavata meglio. Davanti alla sofferenza dei miei pazienti, alle loro storie fatte di lutti, separazioni, davanti a quei familiari che aggiornavamo solo per telefono, cercando di rassicurarli senza dar loro false speranze, mi sentivo totalmente inadeguata e incapace di portare quel peso. Quello che mi faceva più arrabbiare era la mia insofferenza ai dispositivi di protezione: come potevo davanti a tutta quella sofferenza lamentarmi per il dolore della mascherina, il caldo, il non poter bere? Insomma, la mia fragilità era per me un ostacolo insormontabile e meschino peccato davanti all’emergenza che ci trovavamo a vivere. Quando tornavo a casa, finito il turno, mi accorgevo di essere totalmente svuotata, prendevano il sopravvento tutte le fatiche della giornata, le mie immagini, le preoccupazioni inutili e l’unica cosa che desideravo era di nascondermi sotto le coperte. Ogni mattina prima di entrare in reparto cercavo di affidare la mia giornata a Dio, ma poi nelle mille cose da fare questa coscienza scompariva.
Tutto ha cominciato a cambiare dopo il dialogo con un mio amico, che davanti alle mie lacrime, mi ha detto: “Ma tu chi sei? Tu sei di Cristo!”. Questa frase è stata come un pugno nello stomaco, perché se 'io sono Sua' vuol dire che Lui vince ogni mia fragilità, è con me sempre, anche quando io non mi ricordo di Lui, anche se Lo tradisco mille volte nell’arco della giornata. È vero, io “sono piccolo, sono niente, la cosa vera e grande è un’Altra” (don L. Giussani), ma quella cosa vera e grande è entrata nella storia per salvare il mio niente. Il riprendere coscienza di questa appartenenza ha cambiato il mio modo di entrare in reparto, non perché magicamente la fatica fosse scomparsa, a quella si era solo aggiunta la stanchezza, ma tutto era vissuto in un rapporto. Ho iniziato ad entrare in reparto con addosso un’ingenua baldanza perché cosciente di essere chiamata lì, in quel reparto, in questo preciso momento storico, da Uno, che conosce tutti i miei difetti, tutte le mie fragilità e mancanze, ma che non se ne scandalizza, anzi le guarda con tenerezza e le salva.
Il desiderio di felicità che ci costituisce è costretto a fare i conti con l’evidenza di queste giornate, eppure è un desiderio irriducibile. Cos’è nella tua esperienza il 'bisogno di impossibile'? Come lo stai scoprendo in questa circostanza del coronavirus?
In tutta la fatica e il dramma di questo periodo per me è sempre più evidente che il mio cuore grida e non si accontenta di misere pacche sulla spalla, di banali rassicurazioni o speranze come “andrà tutto bene”. Il mio cuore trova riposo e soddisfazione solo in certi momenti, quando mi sorprendo a scoprirLo nei più piccoli dettagli delle mie giornate, quando mi riaccorgo di che miracolo è l’uomo - “mi hai fatto come prodigio” (salmo 138) - nel rapporto con pazienti e colleghi. E questo non vale solo per me, ma anche il cuore dei miei colleghi (indipendentemente dal loro credo religioso) ha questo bisogno irriducibile di felicità.
Qualche settimana fa è morta una paziente a cui eravamo tutti molto affezionati, era ricoverata da circa un mese e da più di 20 giorni stava facendo un particole tipo di ventilazione molto difficile da sopportare. Una mattina era tra i miei pazienti; quando l’ho visitata era molto stanca, affaticata e mi sembrava avesse smesso di lottare, mentre noi continuavamo a fare di tutto per tenerla in vita. Confrontandomi con una collega più grande decidiamo che era arrivato il momento di lasciarla andare. Prendere questa decisione mi è costato molto, ogni farmaco, ogni presidio che le toglievo mi creavano un immenso disagio. Inoltre essendo una 'mia' paziente, ho dovuto comunicare la decisione presa ai familiari; dopo il mio misero tentativo di spiegare loro la situazione mi hanno risposto: “Va bene dottoressa, abbiamo capito, noi però continuiamo a pregare per la mamma e per voi che fate questo lavoro”. La loro fede così semplice, che a me tante volte manca, mi ha spiazzato mettendomi quasi in imbarazzo. Il Papa nell’omelia del giorno dopo ha detto: “Cristo prega per Pietro e per ognuno di noi”. Quei familiari erano per me proprio questo 'Gesù che pregava per me'. Un paio di giorni dopo la signora è morta. A un cambio turno la dottoressa, che era di guardia quando la signora è morta, è scoppiata a piangere e ha tirato fuori tante domande che in quei giorni l’assillavano. È stato impressionate come gli altri medici le sono stati di fronte, come hanno guardato le sue domande. La sera la dottoressa, dopo avermi dato le consegne per la notte, mi ha chiesto di fermarmi a parlare. Mi ha raccontato di essere riuscita a far fare alla signora un’ultima videochiamata con i familiari poche ore prima che morisse. E alla fine mi ha detto: “Sai, quando mi hanno chiamato gli infermieri ero già uscita dal reparto, ma mi sono voluta rivestire ed entrare perché non potevo pensare che se ne andasse senza che qualcuno le avesse dato una carezza o un bacio. Ti dico questo perché spero che il sapere che ci fossi lì io ti rassereni.”
Rispetto a questo episodio sono due le cose che mi colpiscono: la prima è il rapporto che sta nascendo tra noi colleghi (molti conosciuti in questi mesi di emergenza). Di solito quando muore un paziente in reparto il massimo che ti dicono è un 'mi dispiace', invece questa situazione ci sta obbligando a far uscire tutta la nostra umanità, iniziamo a farci una compagnia vera, pur con tutte le nostre differenze, ognuno attento alle fatiche e al bisogno dell’altro.
La seconda è il fatto che questi pazienti così soli, senza i loro familiari, hanno iniziato ad essere i nostri cari, per cui la dottoressa aveva tutta la preoccupazione di rientrare a salutarla, sebbene oramai la signora fosse già morta. Ma in fondo chi aveva più bisogno di quella carezza?
Il nostro cuore ha dentro un desiderio di bene che niente può sopprimere. In tutto il dolore e la fatica di quei giorni questi fatti mi hanno commossa, perché mi hanno fatto accorgere di essere continuamente accompagnata da Lui: era Cristo che mi diceva “io ti vengo a prendere anche fin lì, anche in questa fatica, in questo dolore”… e quando mi accorgo di questo è proprio quello il momento in cui il mio cuore riposa.
Ci ha molto colpito accorgerci che quest’anno non avremmo potuto fare il pellegrinaggio nella modalità solita; affrontare questa circostanza ci ha in qualche modo costretto a tornare all’essenziale. Cos'è l'essenziale nella tua esperienza? Cosa ti senti di suggerire come aiuto a vivere il pellegrinaggio, anche se in una modalità insolita?
Vivo a Milano da pochi mesi, gran parte dei miei amici e dei miei affetti sono in altre regioni, qui ho iniziato a farmi le prime amicizie ma con il lockdown, come tutti, non ho avuto più occasioni per vederli. Proprio nel momento in cui avevo più bisogno di essere supportata e accompagnata. Eppure per me questa è stata una grande occasione per riaccorgermi di Chi sostiene quei rapporti, di Chi me li ha donati. Quei volti che mi hanno sempre accompagnato nel mio cammino, sono stati per me un segno tangibile della Sua presenza, ma tante volte il sentimento e la superficialità con cui vivo mi fanno dimenticare di cosa consistono. E invece questo 'isolamento' mi chiede un nuovo passo di autocoscienza, cioè di accorgermi di Chi davvero sostiene la mia vita e di quali sono i compagni di viaggio che Lui ora mi sta donando (i miei colleghi, le mie coinquiline). L’essenzialità per me è stato il continuo riaccorgersi di quale è la ragione ultima di tutto, del perché vale la pena rischiare in reparto, fare dei turni massacranti, rimanere a Milano (mio nonno all’inizio della pandemia mi ha detto: “Torna a casa, a luglio rifarai il test per la specializzazione, nel frattempo te lo pago io lo stipendio”).
Il pellegrinaggio è sinonimo della vita, un cammino verso il nostro Destino, c’è l’entusiasmo dell’inizio, la stanchezza, la distrazione, la fatica, la paura di non arrivare, i compagni di viaggio che ci sostengono, ci ridonano il sorriso e ci aiutano a fare un altro passo. Poi iniziano i tratti in salita e con essi a volte lo sconforto, ma poi quando entri a Loreto, dopo i tornanti, con il sole che inizia a illuminare tutto, provi un’immensa gioia e i piedi vanno da soli, non fanno più male o se fanno male non importa più perché stai per arrivare, c’è Lei, la Madonna Nera che ti aspetta in piazza. Quante volte possiamo rintracciare questi sentimenti-esperienze nella nostra vita quotidiana, forse l’occasione di questo pellegrinaggio 'alternativo' è proprio per riaccorgerci che, anche stando a casa, con i figli, con lo smart working, c’è Uno che ci aspetta, che dona luce alle nostre giornate, allevia le nostre fatiche e ci dona sempre dei compagni di viaggio, a volte un po’ inaspettati.