Verso #MacerataLoreto21 - quarta puntata
Abbiamo chiesto a Mariano, responsabile del servizio sanitario del Pellegrinaggio, di raccontarci la sua esperienza in questo secondo anno di pandemia e la provocazione che rappresenta per lui il tema del Pellegrinaggio.
Lo scorso anno ci hai raccontato la tua esperienza di medico di famiglia nel dramma di quelle giornate, le tue paure, a volte il sentirti solo, le tue attese. Da allora cosa è accaduto?
La pandemia da tempo non ci dà tregua, eppure mai come in questo anno sono emersi il fascino e la centralità della mia professione, la sua unicità; anche per noi medici l’aspetto decisivo in questa emergenza sanitaria è stato l’essere riportati alle domande sullo scopo del nostro lavoro. Guarire qualche volta, assistere più che si può, confortare sempre: questo vale ora come due secoli fa, ma ci sono momenti cruciali, come quello attuale, dove è evidente che la prestazione e la risposta scientificamente e tecnicamente adeguata da sole non bastano.
Così mi sono scoperto desideroso di stare davanti alla sfida umana che c’è dentro la mia professione, cercando di utilizzare in ogni istante i due “strumenti terapeutici” che ogni professionista porta sempre con sé: quello che “sa” e quello che “è”, non solo applicando i protocolli o usando le parole, ma anche attraverso lo sguardo e quei piccoli gesti che aprono il cuore di chi è malato e di chi lo cura. Sono gesti che commuovono, che aiutano a vincere la paura e aprono ad una imprevista speranza (che si tratti di telefonare ai pazienti o ai loro parenti lontani, di organizzare il rosario perché il Signore accompagni chi è da solo a lottare, o come quell’amico medico che, seppur oberato di lavoro, in ospedale la mattina porta le brioches ai malati, magari accompagnate da un bigliettino con su scritto la frase di una canzone).
È difficile reggere la durezza delle ondate della pandemia senza prendere una decisione su cosa si vuole essere, “perché la realtà non scivoli via senza accorgersene” come diceva un amico collega dell’Ospedale Sacco di Milano. Proprio per aver accettato questa sfida, dopo la seconda ondata mi sono ritrovato più ricco di rapporti, di fatti, di interessi e di domande. L’alternativa a questa posizione umana è “tornare come prima”, aspettare che ti dicano ciò che devi fare o che passi la tempesta: sarebbe una vera ipocrisia e l’ennesima occasione sprecata.
La pandemia, come ha detto papa Francesco, ci ha messo alla prova. Cosa significa “ricominciare” nell’esperienza del tuo lavoro?
Per me ricominciare significa riprendere in un modo diverso, continuare in un modo diverso un lavoro che non si è mai interrotto. In questo anno ho scoperto innanzitutto che non si può più lavorare da soli: il mio bisogno è di stare insieme a un altro per affrontare il mio lavoro, avverto l’esigenza di un giudizio condiviso per combattere quello sguardo individualistico sulla malattia e sulla professione, che la pandemia ha solo evidenziato. Per questo ho continuato ad assumere l’incarico di referente/coordinatore delle USCA per la lotta al Covid, che mi dà la possibilità di camminare insieme a giovani colleghi, condividendo con loro il peso del lavoro, ma anche la bellezza della formazione e della ricerca, desiderosi di essere accompagnati, un desiderio che è soprattutto il mio. Anche l’adesione al programma vaccinale, rivolto all’inizio ai pazienti non trasportabili e ultrafragili, è stata per me l’occasione di riprendere, con uno sguardo più vivo e attento, quell’assistenza domiciliare ai malati cronici No-Covid che non era mai venuta meno, ma che le varie ondate pandemiche avevano messo in secondo piano. Il desiderio poi di rispondere, in prima persona, alla richiesta dei miei assistiti di effettuare la vaccinazione nell’ambulatorio del proprio medico di famiglia mi ha portato a confrontarmi con i vertici aziendali coinvolgendo anche altri colleghi. Insieme abbiamo ribadito che, vaccinando nei nostri studi, proprio per quel rapporto di fiducia medico-paziente, si sarebbero superate tante conflittualità legate al tipo di vaccino da somministrare e si sarebbero anche risparmiate tante risorse. Come sottolineava San Giuseppe Moscati “non ci sono né se né ma; se vuoi fare un’esperienza vera devi rischiare”. Solo così è possibile ricominciare.
Che provocazione è per te il tema del Pellegrinaggio di quest’anno “Quando vedo Te vedo speranza”? Cos’è per te la speranza nelle tue giornate?
Ho il cuore colmo di gratitudine per come mi sono sentito accompagnato nello stare di fronte alle sfide di questi mesi: vedere come pazienti, amici, colleghi sono stati di fronte a questa circostanza, accorgermi che in loro la paura non ha vinto per la certezza di una Presenza che ti permette di stare davanti alla ferita del dolore e della sofferenza come un bambino, che può affrontare il pericolo quando ha vicino la sua mamma, una Presenza carica di attrattiva, che ti addita una bellezza che ti corrisponde. Guardando loro (chi soffrendo, chi prendendosi cura dei malati, chi nell’isolamento, amici intubati, tracheostomizzati) mi accorgo che desidero imparare dal loro SI, tenere vivo quello sguardo che ti fa accorgere di essere voluto ed amato, che ti fa intravedere “il sole oltre le nuvole”, come mi disse Don Giancarlo Vecerrica, 50 anni fa. La verifica di tutto ciò è una letizia, una pace a me sconosciute, generate dalla comunione con veri amici e la risposta dei pazienti, anche di fronte alla mia stanchezza e distrazione, è una tenerezza e commozione inaspettate.
La speranza è proprio questa certezza in una Presenza che non ti abbandona mai, neanche nelle circostanze più drammatiche. Ma sarebbe una bella frase, un’astrazione, se non mi accorgessi oggi, a 66 anni, attaccato a quella fune della vita, di persone che sperano, che mi provocano stupore per come vivono le cose di tutti i giorni, se non intercettassi adesso dei volti che incarnano nella loro vita l’esperienza di un abbraccio, che consente di affrontare il dolore, la sofferenza e la morte stessa. E più resto attaccato, più cresce l’affezione a chi mi vuol bene così come sono e mi perdona; mi scopro così sempre più “io” con una umanità nuova, diversa, cambiata: domani sicuramente lo dimenticherò, scivolerò, farò passi indietro, ma ogni volta che volgerò lo sguardo verso di Lei “vedo speranza”, certo che il compimento della mia umanità sta nel rimanere lì dove sono chiamato.