Lettera di Pietro (Milano)
Carissimi amici,
ci tenevo a raccontarvi brevemente l'esperienza del Pellegrinaggio, almeno attraverso un paio di cose veramente significative per me. La sovrabbondanza di questa nostra amicizia mi accompagna costantemente; sento quindi che a perderci sono io, se mi tengo per me quel che mi ha toccato.
Volevo innanzitutto "dichiarare" che mi sono ripreso fisicamente dal giorno dopo: la mia condizione da reduce della Campagna di Russia è durata qualche ora... Beh, ho sopravvalutato i miei muscoli in mancanza d'allenamento! Ma devo dire che proprio la mia fatica è stata la fessura attraverso cui Qualcuno è entrato a riprendermi, come fra poco vi dirò; per cui vale la pena provare a raccontare.
Per prima cosa, però, devo dire che mi sono trovato più volte in silenzio, letteralmente, per la bellezza e l'intensità del gesto; e per la bellezza, l'intensità e la passione irriducibili che ho visto in voi, in particolar modo in Luigi (responsabile dei canti del Pellegrinaggio, ndr) e in chi ha cantato per tutta la notte, a più riprese, con una forza che mi ha reso obbligatoria una prima serie di domande: da cosa sono mossi? Chi li muove? Chi è davvero il protagonista, qui? Tra certi canti e un certo modo del canto, nell'incalzare di messaggi, letture, testimonianze senza alcuna tregua (santuario compreso) era palpabile l'energia misteriosa di una presenza. Con tutto il bisogno che uno ha di essere riacciuffato, il delitto più grande sarebbe smettere di riaccorgersi, per sé, di questa evidenza.
Quando però, dalle tre e mezza in poi, il dolore muscolare ha avuto progressivamente il sopravvento, mi sono trovato messo di fronte, in modo limpido, al dramma puro della mia libertà: o guardavo il mio limite come misura rispetto a una mia idea del contributo che avrei dovuto essere (e dunque sentivo inadeguatezza, dispiacere di essere di scarso aiuto per il servizio dei canti – che avrei voluto godermi in un certo modo – fastidio per un malessere che esasperava questo contrasto) o come la condizione che in quel momento mi era data per vivere il mio essere mendicante della presenza di Cristo, cedendo al fatto che la strada alla meta non la decidi tu, e la convenienza di questo "sì" è da riaffermare in ogni passo. La genialità della coincidenza tra il pellegrinaggio e la vita mi lasciava esterrefatto (pur nel mio affanno finale): davvero in quegli istanti non c'era alcuna differenza tra queste due dimensioni. Tanto da farmi sorgere, per esempio, del tutto gratuitamente, la percezione netta che in quel momento stavo misteriosamente partecipando al dolore dei nostri fratelli cristiani perseguitati in Siria, o delle persone malate che venivano nominate; non per chissà quale mia suggestione o nobile fantasia, ma perché stavo riconoscendo che il sacrificio delle immagini di sé nell'obbedienza a Uno poteva essere lo stesso da quando Cristo, per primo, lo ha vissuto col Padre.
Ma il fiore più bello, per me, è avvenuto in un momento preciso del percorso proposto dal pellegrinaggio, momento in cui le due cose che più mi hanno colpito sono accadute insieme.
Proprio all'inizio della fatica più intensa, nel pieno di quella lotta della libertà che descrivevo prima, Luigi presenta l'Agnus Dei (della Messa per l'Incoronazione di Mozart, ndr) e lo ascoltiamo. La genialità di quella musica e di quel testo fatti ascoltare in quel momento mi ha permesso di vivere l'esperienza della misericordia: Qualcuno stava accompagnando il mio limite – cioè il mio nulla, la mia meschinità che, come per Pietro, veniva tutta a galla dalla ferita più "innocente" del dolore fisico – fino ad abbracciarlo e ad amarlo così com'era.
Che bellezza! Non è stato possibile frenare le lacrime: erano come il segno di un cedimento. Non avrei barattato per nulla al mondo quel riposo e, insieme, quell'esaltazione che uno vive quando finalmente si abbandona al rapporto con Chi lo fa.
Scrivendovi stasera mi sono accorto di aver capito di più questo pezzo degli Esercizi:
«Avere dunque la percezione di questa resistenza alla verità di noi stessi come uomini, avere perciò il senso del peccato, è la cosa pedagogicamente più importante della vita perché ci spalanca al Dio vero. Il peccato è comportarsi come i signori della propria vita, e riconoscerlo è avvicinarsi al fatto che la misura, il criterio, la signoria della vita è il mistero di Dio» (L. Giussani, Alla ricerca del volto umano, Bur, Milano 2007, pp. 37-38, cit. in «Ti ho amato di un amore eterno, ho avuto pietà del tuo niente». Esercizi della Fraternità di Comunione e Liberazione. Rimini 2016, p. 27).
Scusate la lunghezza, vi ringrazio ancora tutti per l'occasione che ho potuto vivere e ci rivedremo presto!
Buon tutto.