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«Il terremoto non è una fatalità, né una punizione»

Messaggio di S.E. Mons. Domenico Pompili, Vescovo di Rieti

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L’ultima occasione per accorciare le distanze tra noi

Il terremoto che ha devastato il Centro Italia dal 24 agosto scorso e che, ancora l’altro ieri a Pizzoli vicino l’Aquila, ha fatto sentire il suo sinistro avvertimento, non è una fatalità né una punizione. È una realtà prevista anche se imprevedibile con cui dobbiamo fare i conti. Ci si chiede cosa fare. Il futuro è senza volto e non siamo più gli stessi. Chiamiamo in causa Dio, che non è mai altrove rispetto al dolore del suo popolo, per non affrontare fino in fondo le responsabilità e le manchevolezze degli uomini. Poi, lentamente, giorno dopo giorno, emerge anche l’esigenza di immaginare altro rispetto alle macerie. Paradossalmente, essere in ginocchio apre una visuale diversa e più libera per fare quel salto di qualità necessario a pensare un altro modello di sviluppo. L’umiltà ci rende più vicini alla terra ferita, più capaci di ascoltarla e, forse, anche più capaci di inventare nuove forme di presenza per i nostri borghi. È crollato un mondo, però non si è spento lo spirito dei luoghi, che il dolore rende ancora più sacri. Ciò che è accaduto non si può cancellare. Ma non può e non deve essere l’ultima parola.

Ci vuole soprattutto una qualità che è la mitezza, oggi una merce rara, soppiantata dalla rabbia e dalla disperazione. La mitezza, di cui Gesù è il tipo più convincente, è una forza distante sia dalla muscolare ingenuità di chi promette ‘tutto e subito’, salvo essere smentito dai ritardi e dalle lentezze burocratiche, sia dall’inerzia rassegnata di chi si volge altrove perché l’agenda setting delle notizie impone altre priorità. La mitezza evoca un coinvolgimento tenero e tenace, un abbraccio forte e discreto, un impegno a breve, medio e lungo periodo. Qui siamo chiamati in causa tutti: istituzioni e cittadini. La politica ha nel terremoto l’ultima occasione per accorciare la sua distanza dalla cosa pubblica. Diceva don Milani: “il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. Alle terre devastate del Centro Italia, le istituzioni hanno promesso che questi luoghi torneranno a vivere come e meglio di prima. Perché questo si compia si richiede la voglia di ricostruire ‘insieme’. Soltanto così il soffio vitale che c’è in ognuno di noi tornerà a far risplendere il sole. Ciò che conta è riscoprire la solidarietà non come l’emozione di un momento, ma come un impegno anche strutturale che metta mano a quelle priorità che per troppo tempo sono state silenziate. Ciò chiama in causa l’apporto, oltre che della politica, dei singoli cittadini. Di ciascuno perché la faglia emotiva che si è prodotta non produca persone isolate e, dunque, più facilmente manipolabili.

Papa Francesco incontrando le popolazioni terremotate - subito dopo Natale - ha indicato tre cose concrete da cui ripartire: il cuore, le mani, le ferite con le cicatrici. Il cuore prima della casa suggerisce che si tratta di mettere mano all’elaborazione del dolore e del disorientamento, senza fretta, esercitando una grande pazienza verso se stessi. Le mani dicono della necessità di procedere speditamente nel lavoro senza incertezze, inciuci, equivoci o collusioni. Occorre una gestione accorta per evitare infiltrazioni e speculazioni. È necessaria una serie di attenzioni che privilegiano la ripresa dell’economia per territori già segnati dallo spopolamento. Infine, le ferite e le cicatrici lasciano intendere che si può curare la ferita, ma resta una cicatrice che nessuno può togliere. Dobbiamo imparare a convivere con questo nuovo stato di cose.

Abbiamo costruito un mondo di sicurezze artefatte, ma la vita resta, per definizione, un rischio. E chi vuole imbellettarla fatica poi a viverla nel concreto. Siamo diventati più asciutti e più concreti. Questo tempo non è stato certo il più bello, forse neanche il più brutto. Di sicuro il più vero.